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La struttura del fallimento

La struttura del fallimento

A volte certi lavori vanno bene, altre volte meno, oppure falliscono. A volte i rapporti vanno bene per anni e poi si deteriorano inesorabilmente.
Ogni volta che occorre un fallimento parte il flusso di coscienza che comincia con "La colpa è del cliente", quindi passa per "Ho sbagliato tutto io" e, se l'analisi prosegue, si conclude con che cosa ho imparato e cosa posso fare di meglio "La prossima volta".

La colpa è del cliente

Si perché, spesso, non è un problema di mie competenze (generalmente se non so o non so fare qualcosa, dal punto di vista tecnico, lo dichiaro fin da subito vista la mia bassa propensione al rischio in ambito lavorativo).
Allora se qualcosa va male il mio cervello individua subito i colpevoli classificati in:

  • manca leadership: che tradotto è "come posso portare un cambiamento nel cliente se è il cliente stesso a non crederci e a non spendersi?";
  • il lavoratore tossico: capita in tutti i gruppi che ci sia qualcuno che remi contro, se poi questo qualcuno è in un ruolo chiave ecco che il lavoro non viene portato avanti e, soprattutto, le informazioni rilevanti sono nascoste e vengono scoperte sempre troppo tardi; [1]
  • il progetto era troppo ambizioso: l'azienda non era pronta per quel tipo di lavoro per cui, ovviamente, non si arriva alla conclusione.

Ma... poi… parte quella vocina nella mia testa per cui...

Ho sbagliato tutto io

Sì perché se non mi manca ne la tecnica ne l'esperienza, come è possibile che non sia riuscito a portare a termine il lavoro come si deve (che non necessariamente significa non raggiungere lo scopo, ma anche il percorso e gli effetti che si protraggono dopo la fine delle mie attività sono un segno della bontà del mio lavoro).
Quindi, "shame on me" perché:

  • non ho ritarato il progetto sulla base dell'effettiva (e solitamente non chiaramente dichiarata inizialmente) richiesta del cliente ma sono andato avanti a testa bassa, con lo stendardo del "quality first" quando quello che viene richiesto è "il pezzo di carta";
  • non ho individuato le persone tossiche o, anche se "ah ah, trovato", non sono riuscito ad arginarlo, eluderlo, portarlo dalla mia parte, rimappare la comunicazione;
  • mi intestardisco ad avere una visione romantica del mondo per cui tutti hanno una propensione altruista (e quindi al miglioramento complessivo e non solo personale) quando, a molti, interessa al massimo il proprio ombelico.

Si comincia con rabbia, si passa per la tristezza ma, si spera, si arriva alla consapevolezza.

La prossima volta?

Perché la chiave non è "non sbagliare" ma sbagliare il meno possibile (che comprende anche riconoscere tempestivamente gli errori per evitare che una farfalla che sbatte le ali dall'altra parte del mondo… bla bla… la tempesta perfetta) e, soprattutto, evitare di ripetere gli stessi errori.
Cosa estremamente complessa quando gli argomenti tecnici (cosa fare) si intrecciano con aspetti psicologici e sociologici (come fare e come comunicare).
Quando si prova a fare del proprio meglio, gli errori che davvero bruciano sono quelli che si potevano evitare.

Per approfondire

Questi argomenti, in particolare in contesto aziendale ed in ambito di salute e sicurezza (ma estendibili a tutti gli ambiti aziendali, secondo me) sono da anni oggetto di studi e con una letteratura robusta. Che ho deciso di approfondire in modo sistematico e scientifico. Partendo da (PDF) The study of information flow: A personal journey (researchgate.net) e, come prossima tappa, studiando seriamente (e non solo da estratti) Human Error : Reason, James: Amazon.it: Libri.

Per le aziende

Alcune chiavi, secondo me, per il miglioramento e la riduzione degli errori sono:

  • Mission, Vision e Policy chiare e condivise;
  • Formazione trasversale delle persone con ruoli di responsabilità (apicale o intermedia);
  • Individuazione dei conflitti nelle scale di priorità/valori tra l'azienda ed i lavoratori (ad esempio se è più importante finire il lavoro o non farsi male) per evitare che le persone siano indotte a comportamenti non accettabili (solo questo punto richiede pagine e pagine di approfondimento).

Note

[1] A tal proposito, secondo James Reason, Ron Westrum e altri autori una cultura aziendale è definibile come patologica quando, tra le altre, le informazioni sono nascoste.

Questo mese pensavo di riuscire a concludere "Usare due cervelli" per continuare il percorso iniziato con Usare le orecchie (che troverete aggiornato). In "Usare due cervelli" presenterò il mio percorso per l'uso e l'adattamento del metodo Zettelkasten che tanto mi sta dando a livello personale e professionale. Se vuoi essere (abbastanza) sicuro/a di leggerlo, ti puoi iscrivere sul sito e lo ritroverai diretto in casella email, spero, ad ottobre (ricevere gli articoli sull'email è l'unico uso previsto per le e-mail degli iscritti).